Antropologia e piccoli paesi

Lia Giancristofaro

Allearsi con gli antropologi Nell’era del “nuovo capitalismo”, si parla della connettività come forza rivoluzionaria, in base alla quale si riprogetta il pianeta investendo miliardi di dollari l’anno in infrastrutture di trasporto, energia e comunicazioni che collegano insieme le megalopoli del mondo, in un fenomeno di urbanizzazione che non conosce eguali (Khanna 2016). La centralità delle metropoli post-industrializzate ha giganteschi effetti geopolitici, demografici e ambientali, e si intreccia a disuguaglianze culturali vecchie e nuove. Mentre le città globali diventano luoghi di aggregazione finanziaria, normativa e mediatica, la fisionomia dei paesi si ridefinisce attraverso la disgregazione sociale e la decrescita degli abitanti e delle attività produttive. Mentre nelle città globali le persone stesse sono le infrastrutture delle nuove frontiere della conoscenza, nei paesi gli abitanti superstiti attuano complesse strategie di resilienza. Insomma, i borghi delle aree montane e rurali faticano a rigenerarsi e a riposizionarsi, ma hanno la qualità della diversità culturale, e rappresentano, di per sé, l’opposizione e la complementarità alla centralità urbana. Questo potrebbe aiutare ad osservare il problema secondo ottiche diverse, più funzionali a trovare soluzioni: infatti, è la connettività, non la geografia, il fattore che oggi sembra in grado di unire il mondo anche se, ovviamente, l’universalismo di questa ipotetica “cittadinanza connessa” pare una mera utopia di fronte alle tante evidenze locali che conosciamo, oppresse dalla chiusura di scuole, di ospedali, di servizi. La storia “paesana” che vi vogliamo raccontare contiene tutto questo, e inizia nel 1976, quando nella provincia dell’Aquila il piccolo paese di Cocullo, insieme ad Alfonso M. Di Nola e agli altri antropologi che hanno studiato il suo strano rituale (la processione della statua di San Domenico Abate coperta di serpi vive) ha cominciato ad “espandere la cultura locale” in seguito al problema contingente che la modernizzazione gli aveva ribaltato addosso, conducendo il villaggio all’agonia socio-economica. Sicché Cocullo, da cui per anni i contadini e i pastori disoccupati emigravano in massa (il paese è passato da 1200 a 250 abitanti), si è aggrappato alla sofferta e criptica espressività della più emblematica tra le sue feste religiose: una festa discussa e coltivata con coraggio, dacché la Chiesa ufficiale ciclicamente prendeva le distanze da quella che gli etnologi ottocenteschi consideravano una “sopravvivenza culturale”, una bizzarra commistione tra cattolicesimo e residui di paganesimo. Abbiamo menzionato, come data chiave, il 1976, anno in cui venne pubblicata la vasta etnografia Gli aspetti magico-religiosi di una cultura subalterna italiana che, tradotta anche all’estero, implementò, presso la comunità, la coscienza sociale di questa tradizione, tendenzialmente egualitaria e in grado di consentire l’integrazione degli abitanti con un ambiente naturale e orografico che certamente non è tra i più accoglienti. L’antropologo Alfonso M. Di Nola desiderava comprendere i motivi della manipolazione rituale dei serpenti innocui e del profondo legame storico con l’ambiente che questa dimostrava. Di Nola, soggiornando di frequente a Cocullo, analizzò l’uso di custodire i serpenti in casa e di manipolarli nella festa patronale e coinvolse nella riflessione la popolazione osservata, la quale praticava la “tradizione” in un particolare stato di incoscienza, senza pienamente comprenderne la natura di espressione del disagio storico. Grazie a Di Nola, i serpari compresero il senso e l’ampiezza semantica della loro usanza di catturare, custodire e alimentare in casa i serpenti innocui, co-protagonisti della “finzione rituale”, una sorta di teatralizzazione sacra della domesticazione della “selva” per mano di San Domenico Abate. Vaste discussioni pubbliche sviscerarono la memoria del Santo stesso, un grande riformatore della Chiesa che nel secolo XI, uomo di campo, predicatore e taumaturgo, antesignano di S. Francesco d’Assisi, fu amato dagli abitanti delle montagne per la sua capacità di rassicurarli dai tanti mali che all’epoca si incarnavano nel “selvatico” e nel “demoniaco”: la rabbia, le tempeste, le febbri, la carestia, i morsi degli animali selvatici. 1Il “male” dei devoti a San Domenico, avvezzi nella storia a condizioni di vita piuttosto ostili, aveva tuttavia cambiato forme, e la “battaglia culturale” veniva combattuta contro la disoccupazione, contro la mancanza di prospettive, contro il disastro ambientale. Tanti furono i giornalisti e gli studiosi che, grazie agli antropologi, hanno visitato il paese in occasione del rito, verificando che la loro repulsione al contatto con i serpenti, ritenuti viscidi e aggressivi, sorprendentemente si ribalta in simpatia e domesticità, per una sorta di liturgia spontanea di iniziazione, di passaggio dalla paura ad una liberazione emozionale. Secondo Di Nola, a Cocullo la fede era una “grande narrazione umana” ancora viva grazie alla “finzione” della domesticazione delle serpi per mano del Santo, trasformata in un rituale di superamento del male in generale. Alla morte di Alfonso M. Di Nola, nel 1997, il lavoro di riflessione continuò grazie all’istituzione del “Centro Studi sulle Tradizioni Popolari”: questo strumento complesso e plurale fu voluto da antropologi e cocullesi per serbare la memoria dello studioso e del suo approccio partecipativo e riflessivo, ed era rivolto verso l’affrancamento culturale di una zona che, pur adiacente all’autostrada Roma-Pescara, si trovava sempre più marginalizzata dai grandi flussi sociali ed economici. La prosecuzione del lavoro antropologico in un contesto culturale così fragile fu necessaria quanto tempestiva: infatti, a partire dal Duemila, nelle ricorrenti crisi economiche, le politiche nazionali per il turismo orientavano verso il folklore regionale ma con motivazioni attrattive, finalizzando la riscoperta di una idealtipica “autenticità paesana” al servizio di un turismo di evasione. Andando ancora una volta controcorrente, la comunità cocullese continuò a chiamarsi fuori dall’inquadramento spettacolare, dalle pose retoriche, dalle mistificazioni storiche, dal narcisismo purista e dalle proposte dei registi teatrali. La festa è rimasta gratuita, semplice e povera, oggetto di pellegrinaggi da Villalago, Pretoro, Palombaro, Atina o Sora: una narrazione coerente che deriva dal rispetto dei tempi lenti e dei significati religiosi di un rituale che si è rivitalizzato come operazione di salvaguardia ambientale, passando da culto per la protezione dai serpenti ad azione collettiva per la protezione dei serpenti, animali selvatici che oggi sono in via d’estinzione. Grazie alle relazioni solide e plurisecolari intrattenute con i contesti montani che praticano il culto dei serpenti e la devozione per San Domenico Abate, e grazie al consolidamento del legame con quanti, dai paesi del comprensorio, sono emigrati all’estero o a Roma, anno dopo anno Cocullo è diventato una sorta di “orizzonte patrimoniale” a difesa delle culture periferiche e dei loro diritti culturali, per una sorta di “unità di luogo” in cui chiunque porti avanti questa lotta finisce col sentirsi a casa. Insomma i cocullesi, grazie al dialogo costante intrattenuto con gli studiosi, hanno individuato alcune “vie di fuga” da un’autodistruttiva nostalgia per un passato mitico e la riflessione proficua su una eredità culturale “scomoda” si è tradotta, come nel caso analogo dei Sassi di Matera, in una sua reinterpretazione specifica che, nel caso in questione, è stata illuminata dai principi moderni della salvaguardia dell’ambiente e delle specie ofidiche locali. 2Passare dalla protezione “dai” serpenti alla protezione “dei” serpenti Una lettura antropologica e demistificata del culto può aver stimolato i cocullesi ad una certa resilienza. Ovviamente, Di Nola si guardava bene dal ribaltare lo stereotipo negativo (ovvero la denigrazione del rituale ofidico come “imbarazzante” e “primitivo”) in uno stereotipo positivo (cioè trasformare l’ipotetico “primitivismo” in un marchio turistico del territorio). Il rituale era il retaggio sovrastrutturale di condizioni di vita inique e sovraesposte agli eventi storici, e la sua analisi non poteva tradursi nella romantica esaltazione del “barbarico” a fini pubblicitari, realizzando lo sfruttamento commerciale di espressioni culturali complesse e inquietanti che la stessa popolazione ancora non riusciva pienamente a digerire. Lo studio del fenomeno folklorico, grazie agli antropologi, si poneva come confronto critico fra sistemi culturali, come generale discussione intorno ai valori e, in qualità di studio scientifico, si trasformava in una complessa analisi/autoanalisi, per la quale lo studioso stesso portò una profonda riconoscenza al paese. Volutamente lontano dalle lamentele sulla fine della tradizione, Di Nola a Cocullo si sentiva a casa e tra amici, senza pensarsi distante e superiore rispetto al proprio oggetto di studio. Fu una sfida importante, in quanto lo studioso prese implicitamente le distanze dalla posizione di Lévi Strauss dei Tristi tropici, forse il libro che più ha caratterizzato l’antropologia del Novecento, in cui lo studioso francese presentava le culture subalterne come incapaci di reinventarsi di fronte alla macchina del capitalismo occidentale. Di Nola del culto valorizzò l’aspetto costruttivo e creativo, e dunque tutt’altro che passivo, evidenziandone la creatività culturale della società locale e la sua capacità di affrontare gli svantaggi [1].Infatti, la figura del serparo cocullese non stava scomparendo di fronte alla globalizzazione e al cambiamento culturale e naturale, ma piuttosto si stava trasformando in un esperto dello stato di salute dei serpenti, fauna di cui negli ultimi cinquant’anni si è registrata una drastica diminuzione a causa dei pesticidi e delle aggressioni umane. Insomma, l’alleanza strategica con gli antropologi indicava alla comunità una strada innovativa per la patrimonializzazione del culto, che è la strada “ecologista”. La stessa performance rituale veicola significati di pacificazione col mondo naturale, in opposizione ad una visione antropocentrica, che non mantiene la persona in equilibrio con il suo ecosistema naturale. A Cocullo, la dimensione dell’impegno etico-ambientale si è potuta sviluppare in modo inusuale, anticipando di vent’anni i contenuti di importanti patti internazionali sui diritti culturali e sulla biodiversità, rivolti a ricomporre in modo olistico la dicotomia tra l’uomo e la fauna selvatica, come testimoniano i protagonisti delle vicende cocullesi [2]. Il Centro Studi sulle Tradizioni Popolari “Alfonso Di Nola” divenne, a partire dal 1997, un punto di riferimento per gli studi demo-etno-antropologici ed erpetologici. Ovviamente, le attività sono realizzate in gran parte con spirito di gratuità e volontariato perché, trattandosi di un piccolo paese, la scarsità di fondi è costante. Il processo di patrimonializzazione istituzionale delle peculiarità locali (sia culturali, sia naturalistiche) si è svolto per tappe. Dopo una serie di convegni e di incontri preparatori, il Centro ha realizzato, nel 2004, la “Mostra-Museo del Rito di San Domenico Abate”, basata su un apparato multimediale che consente di osservare lo svolgimento del rito in qualsiasi momento. L’idea della Mostra-Museo, curata dagli antropologi culturali, nacque proprio per consentire la fruizione della cerimonia per la quale il paese è famoso, evitando un assembramento eccessivo nei giorni della festa, in cui il paese è letteralmente preso d’assalto dai visitatori [3]. Le riunioni del Centro Studi sono state il terreno migliore per discutere i problemi che, anno dopo anno, sono emersi sul terreno della festa, primo tra tutti quello zoologico. Come è noto, negli ultimi cinquant’anni è maturata una nuova sensibilità collettiva in merito agli animali selvatici che precedentemente, a Cocullo, dopo la festa venivano liberati, ma a volte anche uccisi. Dunque, a partire dagli anni Settanta, si è sviluppato l’uso di liberare i serpenti, il giorno dopo la festa, e di farlo con maggiore senso di responsabilità, ovvero nello stesso punto dove sono stati catturati, per agevolarne l’orientamento. Tuttavia, la restrizione di legge alla manipolazione degli animali selvatici usati nella festa, alcuni dei quali appartengono a specie protette, a partire dal 1998 richiese un ulteriore affinamento di competenze. Per effetto della cosiddetta “Direttiva Habitat” (CEE 92/42), nel 1997 il Decreto Presidenziale n. 357 introdusse restrizioni a livello nazionale e il Comune dovette dotarsi di un consulente professionale (un veterinario) per chiedere una deroga alla legge. Di anno in anno, la deroga fu accordata al Comune di Cocullo, il quale attestò il trattamento di cura e di monitoraggio che i serpari erogavano alle specie protette, visionando lo stato di salute degli esemplari catturati [4]. 3Come si vede, grazie al dialogo con i professionisti, l’incontro con le restrizioni della “Direttiva Habitat” è stato proficuo: la politica ecologista, infatti, ha evidenziato la sintonia ambientale del rituale e il fatto che esso può agevolare la conservazione degli habitat naturali e semi-naturali, proprio come indicato dagli strumenti di legge. Dunque, quello che sembrava un problema si è rivelato un’opportunità di miglioramento del paese, in quale è sito tra due aree protette (il Parco Nazionale d’Abruzzo, Lazio e Molise, e il Parco Naturale Regionale Sirente-Velino). Nel 2007, per volontà comunale, in paese è iniziato un vero e proprio progetto di tutela erpetologica, dal titolo Da cercatori di serpenti a ricercatori. Storia di una simbiosi tra serpari e naturalisti. Gli erpetologi hanno impegnato l’intera comunità in un percorso di acquisizione di conoscenze scientifiche oggi indispensabili per un corretto rapporto con le risorse naturali, come spiega il responsabile del progetto. «Il progetto di salvaguardia della specie mira alla protezione dei rettili nel loro ecosistema naturale. Si tratta di un progetto di conservazione che vede uniti erpetologi e serpari in uno scambio reciproco di informazioni. I serpari per noi sono una fonte notevole di informazioni che derivano dall’esperienza diretta. Per riunire questa mole di dati e renderla fruibile in termini scientifici, ovviamente servono gli erpetologi. La bontà del progetto è testimoniata dalla deroga che il Ministero dell’Ambiente concede in casi rarissimi, come il nostro. Il fatto che il Comune di Cocullo abbia immediatamente scelto di mettersi in regola dimostra la serietà dei cocullesi, che sono persone trasparenti e che affrontano i costi di questo progetto con spirito di sacrificio. In questi anni abbiamo collaborato con l’Istituto Zooprofilattico di Viterbo e con l’Istituto Zooprofilattico dell’Abruzzo e del Molise, i quali hanno provveduto ad eseguire le analisi sanitarie dei campioni di sangue da noi prelevati. Abbiamo creato uno spazio espositivo, parallelo alla Mostra-Museo del Rito, che si occupa degli aspetti scientifici dei serpenti e uno spazio espositivo dove i serpenti possano essere osservati da turisti e scolaresche, mentre noi ci prendiamo cura della salute di questi animali. Certamente dei cambiamenti ci sono stati, per esempio abbiamo suggerito ai serpari di ridurre la tradizionale manipolazione degli animali alle poche ore della festa, che si svolge in una mattinata. L’obiettivo è ragionare su questo e lenire il conflitto storico tra l’uomo e il serpente. Le uccisioni volontarie dei serpenti sono ancora un fenomeno molto diffuso a livello nazionale che, attraverso il progetto di Cocullo, cerchiamo di arginare grazie alla collaborazione della società civile» [5]. Nelle settimane prima della festa, quando i serpenti sono tenuti in cattività, nei locali del Municipio è possibile osservare i controlli sanitari da parte degli erpetologi [6]. Questo ha consentito al paese di coinvolgere un nuovo tipo di fruitore della festa, che non è il semplice devoto o il curioso, ma appartiene alla platea del turismo culturale e dell’istruzione pubblica. Sono sempre più numerose, infatti, le scolaresche che si recano a Cocullo durante l’anno, per visitare la Mostra-Museo e per partecipare a innovative attività ecologiche che, per una sorta di fusione tra il pellegrinaggio religioso e l’osservazione laica della natura, sono state ribattezzate come di passeggiate col serparo. Oggi, insomma, il paese realizza attività interdisciplinari che uniscono le scienze della cultura con le scienze dell’ambiente e del paesaggio, secondo la prospettiva olistica dell’antropologia culturale. Questo fatto segna il cambiamento del rito, che viene messo in atto ogni anno da una popolazione tutt’altro che passiva e inconsapevole, ed è in grado di attirare un nuovo tipo di viaggiatore del post-antropocene, che viaggia appunto nei significati più profondi della diversità culturale ed ambientale. 4-cocull0Restare comunità, diventare un borgo “connettivo”: una sfida quotidiana Il devastante terremoto che il 4 aprile 2009 ha distrutto L’Aquila ha accentuato lo spopolamento dei paesi montani e di Cocullo, anche per via del susseguirsi dei terremoti fino al 2017. L’emergenza economica e le polemiche della ricostruzione, tra il 2009 e il 2010, hanno sollecitato i professionisti del Centro Studi a discutere una serie di problemi, e i cocullesi compresero che l’ambiente umano è una costruzione di cultura, prima ancora che di mattoni: dunque, era necessario realizzare una ricostruzione mirata e “prudente” (Rovigatti 2014). Col passare degli anni, la locale società civile aveva preso il posto di quella che, negli anni Settanta, era una cultura contadina in transizione; tuttavia, la crisi delle imprese portava i pochi giovani professionisti ad espatriare, compromettendo la società civile e rendendo difficile la trasmissione del sapere naturalistico dei serpari. La metodologia di ricerca partecipativa non aveva realizzato propriamente un’antropologia applicata, cioè l’applicazione di teorie volte all’analisi e alla soluzione dei problemi pratici, i quali nel passare degli anni sono aumentati in complessità. A Cocullo il problema non è quello dell’identificazione di un comune elemento culturale materiale o immateriale, il quale è, in tutta evidenza, il culto di San Domenico Abate, trasmesso e coltivato fino alle nuove generazioni. Il vero problema è, semmai, il fatto che le comunità coagulate intorno al culto di San Domenico Abate sono piccoli paesi attanagliati dagli stessi problemi (la crisi economica, lo spopolamento, il terremoto) e che, nonostante una solidale condivisione di condizioni, non sono stati in grado di costruire un sistema per il rafforzamento reciproco. Come membro del Centro Studi e accademica, ho avvertito una frattura tra il sapere accademico e la realtà: dopo il 2009, nel paese, l’unico esercizio commerciale rimasto aperto era il bar e, di fronte al serparo che, scoraggiato per la mancanza di lavoro in zona, ogni anno si chiedeva se emigrare in Australia, continuare a ragionare sul patrimonio demoetnoantropologico di Cocullo aveva senso, gramscianamente, solo come contributo alla soluzione dei problemi. Nell’emergenza, le riunioni pubbliche del Centro Studi spinsero a ricordare che, proprio secondo la ratio legis dei protocolli di salvaguardia dei diritti culturali, e vent’anni prima che questi venissero ideati e realizzati, Di Nola aveva spinto i cocullesi ad essere responsabili della propria cultura. A partire dal 2011, il Centro Studi, il Comune e la Pro Loco hanno intensificato la collaborazione con una particolare professionalità antropologica, quella di SIMBDEA [7], attraverso la quale è emerso che i valori della solidarietà tra le generazioni, del dialogo interculturale e della salvaguardia ambientale sono alla base delle politiche dell’UNESCO e della Convenzione internazionale per la salvaguardia del patrimonio culturale immateriale, che in Italia ha forza di legge dal 2007. Insomma, Cocullo era una buona pratica di applicazione della Convenzione, senza sapere di esserlo. Di qui, le fondamenta di un progetto di salvaguardia sono state velocemente realizzate attraverso una formazione gratuita sulla Convenzione, organizzata dalla sottoscritta nell’ambito di un progetto di ricerca universitaria. 5-coculloGli incontri di formazione ebbero una dimensione internazionale e contarono centinaia di partecipanti grazie ad una rete organizzativa temporanea stabilita tra il Comune di Cocullo, il Centro Studi tradizioni Culturali “Alfonso M. Di Nola”, SIMBDEA, UNPLI [8] e l’Università di Chieti-Pescara [9]. Particolarmente attiva fu la partecipazione delle Pro Loco d’Abruzzo e Molise, con rappresentanze dei paesi della devozione per San Domenico Abate e dei paesi terremotati. L’antropologa Valentina Lapiccirella Zingari, dopo aver visionato il lavoro interdisciplinare realizzato con gli erpetologi, avanzò l’ipotesi di una possibile candidatura dell’elemento Conoscenze, saperi e pratiche legati al culto di San Domenico Abate e rito dei serpari di Cocullo nella Lista di salvaguardia urgente, prevista dall’UNESCO per casi di particolare fragilità del patrimonio immateriale. La comunità patrimoniale estesa, attraverso i suoi sistemi di consultazione interna, comunicò all’esperta la propria volontà di procedere nella direzione di una candidatura, e chiese alla stessa di organizzare un’équipe per la preparazione dei documenti. La condivisione della solidarietà nel nome di San Domenico Abate era il valore straordinario da cui partire per un piano di sviluppo sostenibile e in rete [10]. Nei paesi della devozione, la comunicazione è rodata da anni tramite la macchina del volontariato (Pro Loco, associazioni di pellegrini, mailing list, gruppi facebook, gemellaggi tra confraternite). Su questa base, si sono potuti incastrare i meccanismi sistemici di salvaguardia previsti dalle Convenzioni internazionali sui diritti culturali [11], i quali prevedono la creazione di reti di sostegno allo sviluppo. Tali strumenti avvalorano le attività pratiche delle scienze sociali e, al culmine del processo, offrono la possibilità di formulare richieste di assistenza internazionale che, qualora siano accolte dal Comitato intergovernativo delle Convenzioni, impegnano lo Stato in cui si trova il bene a salvaguardarlo in collaborazione con la comunità di riferimento. Cocullo (L'Aquila): rito dei serpari, vestizione di San DomenicoStabilendo a priori i limiti dell’operazione, la quale è condotta con finanze assai ridotte, l’elemento in sé e la sua natura ambientale hanno aiutato la comunità a circoscrivere l’idea generale da tutti ritenuta importante da essere realizzata, ossia la creazione di attività ecologiche nella forma di piccole imprese locali, cioè un agriturismo, un panificio, un piccolo caseificio con annesso allevamento di ovini [12]. Il tutto, intrecciato al progetto di candidare l’elemento Conoscenze, saperi e pratiche legati al culto di San Domenico Abate e rito dei serpari di Cocullo nella Lista di salvaguardia urgente, prevista dall’UNESCO per casi di particolare fragilità del patrimonio immateriale. La domanda è stata formalizzata nell’autunno del 2018 [13]. La candidatura nella Lista di salvaguardia urgente finora non è mai stata sperimentata in Italia e, per questo motivo, la candidatura cocullese necessita di una continua ridiscussione tra gli stessi operatori. Essa prevede la progettazione e l’attivazione di una serie di azioni tese appunto a salvaguardare e sviluppare non solo l’etica e la salvaguardia ambientale nel paese capofila e nella sua festa, ma l’intero territorio promotore, fatto di tanti piccoli centri che rischiano di sparire per la carenza di attenzione pubblica. Nelle comprensibili difficoltà del percorso, la comunità integrata di abitanti e ricercatori esamina quotidianamente, anche attraverso riunioni telematiche, questo processo di patrimonializzazione ufficiale il quale rischia, nelle more di una vigilanza integrata, di ingenerare equivoci e aspettative distorte presso la popolazione coinvolta. Trattandosi di una rete, infatti, il progetto di salvaguardia coinvolge migliaia di persone, andando ben oltre la cittadinanza cocullese. Il caso viene continuamente e pubblicamente ridiscusso, dal momento che gli approcci al percorso possono essere plurali e diversi. 7Dunque, spesso si sono registrate obiezioni e richieste di chiarimento da parte sia degli imprenditori, speranzosi di un ricavo in termini commerciali dal possibile arrivo del “bollino UNESCO”, sia dei membri del Centro Studi, timorosi che la candidatura possa tradursi in una merci-patrimonializzazione. Il progetto, in realtà, è lontano da una visione produttivista e mercantile, e le comunità coinvolte non vengono chiamate ad adottare passivamente le proposte a loro veicolate. Il progetto considera criticamente il futuro del territorio prendendo in considerazione la qualità delle relazioni e, soprattutto, la loro trasparenza e simmetria, passando per vari livelli di consultazione e collaborazione tra le parti coinvolte. Questi processi sono condotti con la massima tensione etica, secondo le indicazioni delle convenzioni internazionali per la salvaguardia dei diritti culturali: una flessione della tensione partecipativa, del resto, rischierebbe di sdoganare l’oppressione di un gruppo di esseri umani da parte di un altro, in linea con la storia europea di dominio sul resto del mondo, e rischierebbe di contraddire gli scopi di un sistema di pensiero (e di regolamentazione giuridica) che ha la pretesa universale di spingere i gruppi sociali verso la pacificazione e verso la sostenibilità ambientale.
Dialoghi Mediterranei, n. 36, marzo 2019

 

RIVISTA ABRUZZESE
Rassegna Trimestrale di Cultura

Anno LXVII – 2014 N. 1 Gennaio-Febbraio
(estratto dalle pp. 21-27)

Riconoscimento UNESCO e marketing territoriale.
L’Abruzzo e il suo “capitale nascosto” visti dall’expertise

Il presente saggio consegna alcuni risultati empirici dell’esplorazione qualitativa (osservazione partecipante) di un campo di significati nel contesto regionale abruzzese: tradizioni, crisi, economia, turismo, riconoscimento UNESCO, sviluppo. Come ogni ricerca etnografica, questo resoconto è influenzato dalla condizione della sottoscritta, antropologa nativa; dalla condivisione di specifiche convenzioni e decifrabilità espressive “regionali”; dall’obiettivo finale della ricerca, che è di individuare sinergie e dinamiche partecipative (bottom to up) rivolte all’autostima, alla civilizzazione e allo sviluppo culturale regionale, prima ancora che economico. Parallelamente, è stata condotta una osservazione di altri contesti italiani attivi nella patrimonializzazione UNESCO (Lombardia, Alto-Adige)...
(leggi tutto l'articolo in PDF)


RIVISTA ABRUZZESE
Rassegna Trimestrale di Cultura

Anno LXVI – 2013 N. 1 Gennaio-Febbraio
(estratto dalle pp. 42-45)

Sulla salvaguardia del patrimonio culturale intangibile.
Il rituale di Cocullo in una legge regionale

La Convenzione UNESCO del 2003 per la Salvaguardia del Patrimonio Culturale Intangibile (detto PCI o ancora meglio ICH, dall’inglese Intangible Cultural Heritage) nell’ambito delle politiche culturali ha introdotto e dato grande visibilità a livello mondiale al tema della partecipazione comunitaria intesa come momento fondamentale per l’espressione dei valori di una società civile e democratica attraverso la messa in atto di azioni di salvaguardia, trasmissione e valorizzazione delle tradizioni popolari più meritevoli di tutela e più a rischio nel processo di omologazione globale. Tale orientamento è stato recepito anche in Europa, dove il concetto di ICH è stato rafforzato dall’introduzione del concetto di “comunità patrimoniale” per indicare il ruolo attivo delle comunità locali nell’esperienza di valorizzazione e di partecipazione democratica alla sfera pubblica (Convenzione
di Faro, Consiglio d’Europa, 2005).
In Italia, dopo la ratifica della Convenzione UNESCO (2007), la principale strategia per la messa in atto delle politiche culturali sull’intangibile sembra essere stata quella dell’inventariazione da parte degli esperti, che si è attuata con pratiche ministeriali di catalogazione (ICCD) e con svariate iniziative regionali, anche autonome; alcune di queste campagne di catalogazione dell’intangibile hanno riguardato anche l’Abruzzo e una di queste è stata portata avanti nell’ambito del progetto CADRA (2008). Si tratta di un settore in espansione e continua rivalutazione critica, che di recente ha visto l’ingresso più diretto dei territori nelle pratiche di catalogazione, in conseguenza delle candidature per l’iscrizione nella Lista Rappresentativa UNESCO del Patrimonio Culturale Intangibile, la quale richiede ai soggetti candidati l’apertura di un inventario. L’iscrizione nella Lista UNESCO ICH, in un’Italia che conta ben 47 siti iscritti nella Lista del Patrimonio Culturale Materiale (i centri storici di Roma, Venezia, Firenze, solo per citare i primi), è stata finora concessa solo a questi “giacimenti culturali”: l’opera dei pupi di Palermo (2001), il canto a tenore della Sardegna (2005), la dieta mediterranea (2010), la liuteria di Cremona (2012). Un comitato aquilano, all’indomani del terremoto del 2009, si è attivato per richiedere l’iscrizione in questa Lista del rito secolare della Perdonanza, al fine di salvaguardarne la continuità.
Il dato critico è che, così come gli inventari dei Beni Materiali, anche gli inventari dei Beni Intangibili sono oggi realizzati attraverso le procedure nazionali che si rifanno alle schede ministeriali ICCD (Istituto Centrale per il Catalogo e la Documentazione) e si basano su una visione centripeta e disciplinare dei Beni Culturali. Tutto questo sta portando a riflettere sul senso da attribuire al concetto di “partecipazione” delle comunità, perché il ruolo preponderante dei “portatori di interesse” emerge dai territori stessi, in quanto è nelle relazioni comunitarie che si sostanzia il patrimonio intangibile

2 come insieme contemporaneo di valori e di pratiche. Purtroppo la logica che muove gli inventari nazionali equipara la “partecipazione” delle comunità al semplice “consenso” dei detentori nei confronti di un “prelievo” di informazioni eseguito dal catalogatore, che spesso emargina la consapevolezza patrimoniale da parte dei detentori e la stessa dinamica comunitaria, la quale è inevitabilmente disomogenea, ibrica, in continua evoluzione. Il concetto di “comunità patrimoniale”, così come quello di partecipazione e di “inventariazione del basso”, richiede con urgenza la condivisione comunitaria del linguaggio tecnico e delle strategie politiche di “artigianato dell’intangibile” che usualmente rientrano nella professionalità dell’antropologo o dell’operatore culturale. Queste inevitabili frizioni tra la dimensione culturale egemone e quella subalterna in Abruzzo hanno trovato una singolare pacificazione e armonizzazione in un piccolo paese di soli 300 abitanti, Cocullo, il cui rito primaverile di S. Domenico dei serpari gioca da tempo il ruolo di festa più rappresentativa e caratterizzante dell’intera regione. La festa, di cui i cocullesi sono gli indiscussi portatori e padroni, da oltre trent’anni si giova delle ricerche e della vicinanza morale e discreta di un gruppo di studiosi che dal 1997, in memoria dello studioso che più si dedicò all’interpretazione di questa festa popolare nella contemporaneità, hanno istituzionalizzato il loro contributo scientifico come Centro di Documentazione per le Tradizioni Popolari intitolato appunto ad Alfonso M. Di Nola. II Centro, inteso a sua volta come “comunità patrimoniale” di antropologi culturali e di cittadini animati da un interesse non dilettantesco per la ricerca storico-sociale, ha intessuto una rete di relazioni importanti di livello non solo globale, ma anche (e soprattutto) locale, restituendo vitalità e consapevolezza ad un borgo montano destinato allo spopolamento, con ricadute positive sull’intero
comprensorio. Per esempio, Antonio Arantes, docente di antropologia culturale all’Università Campinas di San Paolo del Brasile, nonché tra i padri fondatori della Convenzione UNESCO del 2003, ha visitato il Centro e l’annesso Museo del Rito di S. Domenico, complimentandosi per la tutela del rituale e per l’imponente documentazione sul folklore abruzzese curata da Emiliano Giancristofaro. In conclusione, Cocullo si configura oggi come una “comunità patrimoniale” nella quale l’inventariazione dei beni culturali, intesa come salvaguardia, viene esperita in modo democratico, collettivo e partecipativo tra i paesani e i loro ospiti.
Per questo ed altri aspetti, considerando che nel giorno della festa il paese ospita fino a 20 mila visitatori ed è sottoposto a rischi, stress e tensioni oltre misura, il Consiglio Regionale d’Abruzzo il 22 gennaio 2013 ha riconosciuto l’importanza e la rappresentatività della sua funzione culturale con una legge che concede al paese un contributo annuale per la gestione e per la salvaguardia del suo patrimonio culturale intangibile, che oggi rappresenta un interesse non più paesano e comprensoriale, ma regionale. Mi piace sottolineare che i Cocullesi, opponendosi alle ingerenze esterne e alle logiche opportunistiche e mercificanti dello sfruttamento turistico, hanno sempre rivendicato la partecipazione e la padronanza nei confronti della “loro” festa, realizzando una comunità patrimoniale consapevole e umana che è tuttora in grado di offrire al grande pubblico il proprio rito come un“dono di sé”, senza lasciarlo decadere nel processo di scambio meramente economico, come di frequente accade nel campo della valorizzazione delle tradizioni locali.
L’esempio di “buona pratica” realizzato a Cocullo ha due risvolti, uno negativo, e uno positivo. Il rivolto negativo è che questo singolo esempio di salvaguardia non è assolutamente sufficiente a valorizzare né a garantire nel futuro tutta l’ampia gamma di tradizioni popolari abruzzesi che rischiano di venire in breve tempo dismesse dai giovani o, peggio ancora, passivamente “recitate” e strumentalizzate a fini turistici da parte delle loro comunità, sortendo quell’effetto posticcio e dilettantesco del “folklore del MINCULPOP”, da cui un “gioiello montano” come il rituale di Cocullo è stato preservato per una serie di circostanze positive. La Regione Abruzzo, anziché interessarsi delle pratiche rappresentative dell’ICH solo dietro la sollecitazione sporadica delle singole comunità, dovrebbe farsi carico di un più complesso e organico “Piano di Salvaguardia Culturale” elaborato da esperti e adatto a individuare una rete di tradizioni abruzzesi pacifiche, creative e significative, in modo da dare esecuzione locale alla Convenzione UNESCO del 2003 e alla Convenzione di Faro del 2005, su cui rischia di essere lacunoso l’operato complessivo delle istituzioni italiane, che di valorizzazione culturale parlano spesso, ma senza cognizione di causa. In confronto alle straordinarie opere di salvaguardia dell’ICH portate avanti dal Belgio, dal Brasile, dalla Cina, dal Giappone e dal Mozambico, le iniziative italiane appaiono ben poca cosa, soprattutto perché il più delle volte si tratta di operazioni decontestualizzate. Forse la Regione che, in tal senso, si è messa in regola è la Lombardia, la quale ha costruito la rete intergovernamentale ECHI del patrimonio culturale intangibile (www.echiinterreg.eu) e si è candidata, in tal modo, ai maggiori premi finanziari che l’Unione Europea riserverà a quanti osservino la Convenzione di Faro coi fatti concreti e “di rete”, evitando le iniziative dispersive e frammentarie che sono adatte ad accontentare le istanze dei singoli campanili, ma non restituiscono un’immagine coerente e competitiva di un territorio più ampio quale quello regionale o comprensoriale.
Il risvolto positivo di questa legge “pro-Cocullo” risiede invece nella “generale prova di utilità” del metodo antropologico che, incentrato sulla vitalità quotidiana e creativa delle comunità portatrici di tradizioni, nei territori individuati come giacimenti culturali è lo strumento principale non solo della salvaguardia dell’ICH, ma anche dell’inclusione sociale e della sostenibilità economica. Nel momento in cui viene meno la vocazione universalistica dell’antropologia culturale nella spiegazione della diversità culturale, questa scienza passa ad assumere un compito ancora più professionalizzante e delicato: essa deve non solo esercitare un’azione di supporto alle politiche di salvaguardia e valorizzazione della diversità culturale che si muovono nella scena mondiale, ma anche estendere la sua tradizionale vocazione all’ascolto a quelle modalità di produzione, di riproduzione e di fruizione dell’intangibile che non sono allineate con i linguaggi patrimoniali egemoni e che, mostrando di essere resistenti e controtendenza, rappresentano l’ultimo ancoraggio alla vitalità della diversità culturale.


Lia Giancristofaro